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La Corte Europea per i Diritti dell’Uomo
La Corte Europea per i Diritti dell’Uomo
LA CORTE EUROPEA DEI DIRITTI DELL’UOMO PERDE L’OCCASIONE DI CONFERMARE IL DIVIETO ASSOLUTO DI ‘LIFE IMPRISONMENT WITHOUT PAROLE’ IN AMBITO ESTRADIZIONALE

7 maggio 2023:

Matteo Zamboni – Avvocato e consulente in materia di diritti umani

Il 20 aprile 2023 la Corte europea dei diritti dell’Uomo (la “Corte europea”) ha pubblicato la pronuncia sul ricorso proposto dal signor Muhammad Asif Hazeez nei confronti del Regno Unito. Il caso, che riguarda l’estradizione verso gli Stati Uniti di un individuo accusato di essere a capo di un’organizzazione dedita all’esportazione e al commercio di droga, rappresentava l’occasione di chiarire la portata del divieto di ergastolo senza possibilità di accedere a forme di liberazione condizionale – quello che in Italia viene definito “ostativo” e che nel mondo anglosassone è designato come “life imprisonment without parole” – nell’ambito di una procedura estradizionale.
Purtroppo, nonostante l’intervento di Nessuno Tocchi Caino, che ha presentato un amicus curiae per sollecitare la Corte a mantenere un approccio rigoroso in tema di “fine pena mai”, la IV sezione ha deluso le attese.
Come noto, dalla sentenza Vinter e altri c. Regno Unito del 2013 sino a Viola c. Italia (n. 2) del 2019, la Corte europea ha progressivamente stabilito che l’art. 3 della Convenzione europea dei diritti dell’Uomo (la “Convenzione” o “CEDU”) proibisce agli Stati Contraenti di irrogare la pena dell’ergastolo senza prevedere la possibilità, per il condannato, di accedere ad una procedura che, dopo un certo numero di anni di detenzione, gli permetta di riottenere la libertà in presenza di significativi sviluppi nel percorso rieducativo. Al riguardo, la Corte ha stabilito che questa possibilità deve essere “reale” e “concreta”, cioè prevedibile sia nei requisiti sostanziali che procedurali.
Di fronte a questa giurisprudenza “ben stabilita”, per usare il lessico di Strasburgo, le giurisdizioni di alcuni Stati contraenti, e in particolare quelle inglesi, hanno effettuato dei distinguo, sostenendo che il divieto di pena perpetua operasse soltanto in ambito domestico (cioè nel caso di imposizione di una condanna all’ergastolo da parte di uno degli Stati contraenti) e non in ambito estradizionale (cioè nel caso di richiesta di consegna da parte di uno Stato terzo) con riferimento al quale l’art. 3 della Convenzione troverebbe applicazione in forma “attenuata”. In realtà, la giurisprudenza inglese non aveva spiegato nel dettaglio in cosa consistesse tale protezione attenuata, limitandosi a enunciare il principio secondo il quale non tutte le forme di pena perpetua vietate dall’art. 3 della Convenzione precludono l’estradizione di un individuo verso un Paese terzo. Tuttavia, tale ricostruzione si scontrava con la sentenza resa dalla V sezione della Corte europea nel 2014 in Trabelsi c. Belgio, un altro caso relativo ad una procedura di consegna verso gli Stati Uniti ove era stato affermato che il test elaborato in Vinter doveva essere applicato anche in ambito estradizionale.
Queste considerazioni rendono evidente l’importanza del caso Hafeez e illustrano le ragioni che hanno portato Nessuno Tocchi Caino a chiedere e ottenere di partecipare alla procedura come terzo interveniente per il tramite di un team di accademici e avvocati statunitensi e italiani che, in un intervento redatto pro bono, hanno sostenuto: (i) sulla base delle accuse contenute nell’indictment emesso nei confronti del sig. Hafeez, che vi fosse il “rischio reale” di sottoesposizione alla pena della detenzione fino alla morte; e (ii) alla luce del progressivo sviluppo della giurisprudenza della Corte europea, che non vi fosse alcuno spazio per operare distinzioni in merito alla portata del divieto sancito dall’art. 3 della Convenzione in ambito estradizionale.
Purtroppo, però, la IV sezione della Corte europea, cui è stato assegnato il caso, ha tradito le aspettative, rendendo una decisione che ha deluso commentatori e attivisti per diversi aspetti.
In primo luogo, anche sulla base del recentissimo precedente Sanchez Sanchez c. Regno Unito, la IV sezione ha giustificato l’applicazione di un diverso approccio all’interpretazione dell’art. 3 della Convenzione in ambito estradizionale, chiarendo che in simili circostanze si deve fare applicazione di un non meglio specificato “two-stage approach”.
In secondo luogo, nonostante il parere contrario degli esperti americani (sia nella difesa del ricorrente sia nel team di Nessuno Tocchi Caino), la Corte europea ha sostenuto non fosse stata raggiunta la prova in merito al “rischio reale” che, a seguito dell’estradizione, il ricorrente sarebbe effettivamente stato sottoposto ad una forma di “life imprisonment without parole”.
In terzo luogo, la IV sezione ha affermato che, in ogni caso, a seguito della eventuale condanna negli Stati Uniti il ricorrente avrebbe potuto beneficiare di sconti di pena in caso di collaborazione con le autorità (“if convicted, the length of his sentence might also be affected by pre-trial factors, such as agreeing to cooperate with the US Government”).
In quarto luogo, la Corte europea ha ritenuto di risolvere la controversia con una decisione ex art. 29 della Convenzione, invece che con una sentenza, così precludendo ogni possibilità per la difesa di chiedere il rinvio del caso alla Grande Camera per un nuovo esame della questione ai sensi dell’art. 30 della Convenzione.
Non c’è bisogno di esprimere la delusione per una decisione ambigua e contraddittoria, oltre che regressiva nel percorso della Corte europea verso l’elaborazione del diritto alla speranza. Allo stesso tempo, una singola decisone non può in alcun modo pregiudicare la battaglia di Nessuno Tocchi Caino tesa alla piena affermazione del principio per cui, riformulando i versi di Dante, il diritto alla speranza non si ferma alle porte dell’inferno… e nemmeno a quelle dello spazio giuridico europeo.
Link alla decisione: https://hudoc.echr.coe.int/eng?i=001-224490

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