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BIDEN TRATTA CON TEHERAN SULLA PELLE DEI MUJAHEDDIN

28 giugno 2023:

Elisabetta Zamparutti su L’Unità del 27 giugno 2023

Il 20 giugno un migliaio di poliziotti hanno fatto irruzione a Campo Ashraf 3 dove risiedono circa 3.000 rifugiati iraniani. Siamo nei pressi di Durazzo, in Albania, il paese delle aquile. Le Nazioni Unite e gli Stati Uniti d’America lo elessero nel 2014 come idoneo ad accogliere i Mujaheddin del popolo iraniano provenienti dall’Iraq. Sono uomini e donne che lottano da oltre quarant’anni per la liberazione dell’Iran dall’oppressore: lo Scià prima, i Mullah dopo. Hanno tutti una certa età. I loro corpi sono segnati dal tempo e da una lotta strenua e lunga.
L’esito dell’operazione della polizia albanese? 230 computer e server sequestrati, un morto tra i rifugiati e molti feriti ricoverati in ospedale. Un’irruzione che è come un fulmine a ciel sereno. Tant’è che si susseguono i comunicati stampa. Il primo, quello del Ministero degli interni, spiega che l’operazione è stata disposta da un’ordinanza della SPAK (Struttura di Anti-Corruzione) e per decisione del Tribunale Speciale contro la Corruzione e la Criminalità Organizzata. I rifugiati, si legge, sarebbero venuti meno agli impegni presi nel 2014.
Il decesso e il ferimento di residenti vengono negati mentre si lamenta una resistenza da parte degli stessi al momento dell’irruzione di polizia. Segue, durissimo, Sali Berisha, l’ex Primo Ministro che definisce invece l’operazione di polizia una violazione degli accordi di protezione assunti dall’Albania e dunque un crimine. Interviene nuovamente il Ministero degli interni per rassicurare che gli accordi del 2014 non sono in discussione sempre che non siano i Mujaheddin a violarli.
Ma allora? Aiuta a capire meglio la dinamica dell’accaduto “uscire” dall’Albania e guardare il tutto da un’altra prospettiva. Quella della politica americana. Tant’è che il giorno prima dell’incursione nel campo, l’ambasciatore americano uscente, Yuri Kim, nel discorso di commiato dice che è nelle “mani” del governo albanese decidere di rompere l’accordo con i membri del MEK ed espellerli dall’Albania. Come il Ministero dell’Interno, la diplomatica americana insinua che i Mujaheddin abbiano “rotto l’accordo”. Cosa sta succedendo quindi?
Sta succedendo ciò che è già successo. E cioè, che ogni qualvolta si persegue una politica di negoziazione con l’Iran, come sta facendo Biden sul nucleare, il regime dei Mullah chiede un prezzo: lo scalpo dei Mujaheddin.
È accaduto alla fine degli anni ‘90 quando, di fronte alla elezione a Presidente di Katami, spacciato al mondo come il grande riformista, l’Occidente lo osannò sacrificando sull’altare della politica di accondiscendenza i Mujaheddin che furono inseriti nella lista delle organizzazioni terroristiche, americana prima e in quelle europee dopo. Da quelle liste uscirono grazie a una tenace azione legale anni dopo, azione che ci vide al loro fianco. Ma c’è un’altra valutazione da fare. L’Iran versa infatti in una situazione catastrofica, con un’inflazione al 170% e una mancanza totale di libertà che rende imminente una nuova esplosione di collera.
Fame e repressione possono indurre nuovamente a dare la vita per la libertà, l’alternativa essendo la morte per pena (sia quella della fame che quella capitale) nell’indifferenza. E qui entra in gioco la reale volontà del mondo cosiddetto democratico di contribuire a creare un Iran libero e democratico. Perché è proprio in momenti come questi che occorre operare affinché si affermino movimenti democratici. Tale è la resistenza iraniana con i Mujaheddin che si riconoscono nella leadership di Maryam Rajavi, una donna e dunque già per questo radicale alternativa al potere misogino dei Mullah.
Una donna che vuole costruire un Iran libero e democratico sulla base di 10 punti programmatici ispirati allo Stato di Diritto: abolizione della pena di morte, parità tra donne e uomini, separazione tra Chiesa e Stato. Sono loro che dobbiamo sostenere senza lasciare spazio alla strategia del regime iraniano di loro demonizzazione attraverso opere di disinformazione e di odio se non anche di eliminazione fisica di questo gruppo. Un Iran libero e democratico passa necessariamente dalla difesa, sostegno e protezione di chi, nella durata della lotta, ha dimostrato che né lo Scià né i Mullah possono dare alle iraniane e agli iraniani quel benessere che da tempo cercano.

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