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ANCHE PER GIOVANNI BRUSCA VALGONO I PRINCIPI DI NESSUNO TOCCHI CAINO

3 giugno 2021:

Sotto il sole cocente di Sicilia, che a volte divora tutto trasformando i vigneti in sciara, i santi non ascoltano sempre le preghiere. Sicché accadde una volta che i contadini gettassero nel fiume finanche la statua di San Giuseppe e la ripescassero solo con l’arrivo della pioggia. Nacque proprio dal non voler “buttare niente” San Giuseppe Jato: un comune di 8.000 abitanti di santuari e mulini, di bellezza e mafia, di armonia e terribilità, di luce e lutto. Così è la vita: non esiste un mondo diviso tra buoni e cattivi. Non ci sono persone e territori segnati a senso unico: tutto scorre come un fiume e non ci bagniamo mai nella stessa acqua perché il bene e il male convivono in ciascuno di noi. L’uomo è dèinos, scrisse Sofocle nell’Antigone. Come tradurre questo attributo? Portentoso, tremendo, stupendo, misterioso, prodigioso o mirabile? L’ambivalenza della parola greca esprime in fondo l’unica verità apodittica che conosciamo: la stessa persona può essere nella stessa vita, nelle sue tante vite, in grado di compiere opere di bene e aprire voragini di distruzione.
Sotto il monte Jato per esempio è nato un uomo, Giovanni Brusca, “u verru”, il maiale in dialetto siciliano, che ammazzò 150 persone. Chi può avere la pretesa umana di affermare che, dopo 25 anni, “u verru” sia ancora tale? Caino uccise il fratello ma il signore pose su di lui un segno perché “nessuno lo toccasse”, lo maledicesse, affinché, nella sua stessa vita terrena, potesse divenire costruttore di città. È lo statuto ontologico della nostra lotta politica, la ragione più intima di “Nessuno Tocchi Caino”, che ci porta a dire “Nessuno tocchi Brusca”: noi non difendiamo l’innocente ma il più colpevole, perché pensiamo che una condanna – anche la più giusta e meglio dimostrata – non possa essere eterna ma debba rappresentare un’occasione di riscatto e di rinascita. Lo diciamo anche oggi nel momento in cui Brusca viene scarcerato sulla base di una legge e di un articolo di legge, il 4 bis, ingiustamente ascritto a Giovanni Falcone, che consideriamo con la Consulta incostituzionale; lo affermiamo anche in un tempo nel quale i sostenitori di quel grimaldello normativo di terribilità (come tutti gli articoli bis che, dall’inizio degli anni 90, vengono partoriti dal legislatore), nello stile dei sepolcri imbiancati, contestano finanche questa scarcerazione, avvenuta sulla base della norma che hanno difeso e voluto. Quella legislazione vuole che l’unica via d’uscita da una pena senza fine sia la collaborazione con la giustizia, esclusivo viatico salvifico sia l’equiparazione tra collaborazione e ravvedimento. È l’idea luciferina secondo la quale il fine giustifica i mezzi, quando è vero semmai il contrario: il fine più nobile, l’idea più giusta possono essere pregiudicati e distrutti da mezzi sbagliati usati per conseguirli. È la storia dei “pentitenziari”, della fabbrica dei pentiti che ha messo a morte verità e giustizia. Che colpa possiamo fare a un uomo, chiunque esso sia, il quale si “pente” sapendo che quello è l’unico modo per ottenere un permesso premio, per uscire dal buio dell’ostatività? Lo Stato, nel nome di Abele, diventa esso stesso Caino: un sistema nel quale non esci dal carcere perché hai raggiunto nuovi livelli di coscienza ma in quanto hai semplicemente contribuito alle indagini, non essendo più un uomo, ma uno strumento dello Stato. Dietro tutto ciò sta in fondo una delle categorie più terribili dello stato etico: la dissociazione. È il voler fare a pezzi la vita: occorre “dissociarsi” nel senso di buttare la parte brutta dell’esistenza e di tenere invece la parte buona. Un po’ come fecero gli abitanti di San Giuseppe Jato con la statua del santo: la buttarono nel fiume tout court quando non era foriera solo di opere di bene. L’esperienza invece va tenuta insieme, tutta, anche quella cattiva, anche quella malevola, quella dolorosa, perché anche il male è un’esperienza preziosa. Bisogna mettere a frutto tutte le esperienze. È ciò che Nessuno tocchi Caino fa insieme ai detenuti dei laboratori “Spes contra Spem” di Rebibbia, Opera, Voghera, Parma, Secondigliano. Quei detenuti, pur sapendo di non uscire perché non hanno collaborato, non smettono di “sperare contro ogni speranza”, di fare i conti con la loro vita nel complesso, di vederla, legarla, tenerla insieme. Raggiungono nuovi livelli di coscienza, non dissociandosi, perché la dissociazione con sé stessi – con le proprie parti di sé – potrebbe condurre solo al manicomio. È forse il cambiamento più sincero: non conduce a un permesso, a nessuno sconto, che non sia abbracciare una vita diversa. L’antimafia, che oggi maledice la liberazione di Brusca in virtù della norma che ha difeso come un feticcio, è quella fondata sulla terribilità, sui regimi speciali e dei processi speciali, sul “doppio binario” del 4 bis e del 41 bis, sull’isolamento. Oggi quell’antimafia scomunica il 4 bis, lancia un anatema contro sé stessa, si “dissocia” dal proprio vissuto, maledice addirittura gli strumenti della propria storia. È un’antimafia che subisce il contrappasso dei mezzi sbagliati: ha già perso. L’antimafia che ha vinto, anzi, ha con-vinto, perché non conosce il terreno dell’anti, è quella fondata – come diceva Sciascia – non sulla terribilità, ma sul Diritto, sulla nonviolenza, sulla vita del diritto per il diritto alla vita. Di chi, con Jung, crede che «l’amore è un concetto estensibile che va dal cielo all’inferno, riunisce in sé il bene e il male, il sublime e l’infinito». È quella che oggi ha il coraggio di gridare: Nessuno tocchi Brusca.

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