IL TEMPO E LO STUDIO MATTO HAN RESO UN CARCERATO UN LETTERATO

24 Luglio 2022 :

Fabio Cavalli* su Il Riformista del 22 luglio 2022

La lettura del romanzo Sofia aveva lunghi capelli di Giuseppe Perrone (Roma, Castelvecchi, 2021) evoca immediatamente la parola tormento. Variazioni sul tema del tormento. Dal latino torquēre derivano le espressioni verbali torcere, torturare, tormentare e anche torto, aggettivo e sostantivo.
Giordano Bruno descrive in commedia la “torcitura dei panni di bucato”: strizzati dopo il lavaggio attraverso trazione e contorsione. La sperimenterà poi nella tragedia della sua vita e morte. Contorto è un’altra derivazione diretta. Così come la estorsione di una confessione obtorto collo. Tormentato è il paesaggio che si para di fronte al Petrarca nell’Ascesa al monte Ventoso nella IV Lettera familiare. Tormentata è la coscienza del reo. E lo è l’amore difficile. Il mal di denti è tormentoso. Un’insistente canzone dell’estate è un tormentone.
Il libro di Perrone è una mirabile alternanza di variazioni su due temi: il tormento della coscienza; il tormento degli amori familiari. Inesauribile, sorprendente sequenza di andate e ritorni dentro lo spazio chiuso, metaforicamente e fisicamente.
Chi ha frequentato un carcere, anche da volontario, sa cosa vuol dire contare passo passo la diagonale di una cella di quattro metri quadri, per decenni.
In tanti hanno cercato di descrivere quello stato di tormento. Dovremmo scomodare grandi nomi della letteratura: coloro che furono prima poeti e poi incarcerarti. Evitiamo le citazioni comparative. Chi volesse accertarsi dello stato osmotico fra esperienza letteraria ed esperienza carceraria può utilmente leggere, fra gli altri, il bel volume di Daria Galateria Scritti galeotti – Letterati in carcere (Ed. Eri, 2000). Tranne rari casi, però (J. Genet, P. F. Lacenaire), la condanna è successiva alla poesia. Prima si impara a scrivere alta letteratura e poi la malasorte conduce ad applicare quella scrittura all’esperienza di condannati alla galera o al patibolo.
Fra i rari casi di osmosi inversa c’è il romanzo di Perrone che passa dal crimine alla letteratura lasciando interdetto il lettore.
Chi non conosce la biografia dell’Autore, leggendo il romanzo certamente si interroga su come si riesca a variare il tema con tali sottigliezze retoriche sul sottostante basso continuo barocco del tormento. Probabilmente ci si riesce perché il tempo e lo studio matto hanno fatto di un condannato un letterato. Una per tutte: «La scolarizzazione è più importante della collaborazione», affermazione cui segue un dialogo teso, tormentato appunto, nel quale viene detto: «Con tutto il rispetto, ma anche senza. Caro Marco, collaborare costa. Mandare in galera la gente al proprio posto non è immune da rischi» – «Lo so!». Ci troviamo dunque al centro della questione posta da Perrone, che si può riassumere così: tu, Stato, dopo decenni, stai continuando a tormentare me, al posto di un altro me, che ci pensa già da sé a tormentarsi per sempre.
Si presti attenzione al punto, perché è sottile: il patto di collaborazione con le istituzioni Perrone l’ha sottoscritto, l’ha rispettato, e gli è costato la fatica (non il tormento) di quattro percorsi di laurea e di varie pubblicazioni, fra le quali quest’ultima. Scrive: «Le classi dirigenti dei Paesi si formano sui banchi di scuola e non negli uffici delle procure della Repubblica.» Perrone non soltanto lo ha sottoscritto, il patto. Ne è stato concretamente conseguente.
Nel tortuoso percorso, come grida che echeggiano da un passo all’altro del suo monte Ventoso, si leggono passi di letteratura. Ad esempio, la gaddiana cronaca della morte annunciata del padre nella stanza: «Il televisore spento armonizzava lo stato di quiete a tratti interrotta dal rumoreggiare del frigorifero. Di colpo una insofferenza strisciante colse le donne. Istintivamente si alzarono. Affrettarono i passi. La casa sembrò come riprendere vita, il rumore della maniglia della camera matrimoniale abbassata con forza provocò un rinculo. Oltrepassata la porta della camera, “papà è morto” disse la figlia. E così era stato.»
Non ho dubbi che questa sia un’ottima pagina, e il suo autore debba essere tenuto d’occhio; più dagli Editori che dalle Procure.

* Regista, fondatore del Teatro Libero di Rebibbia

 

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