Reportage* dalle Comore di Sergio D'Elia

31 Luglio 2015 :



La prigione di Moroni è in cima a una collina all’ingresso del quartiere di Dawedju e, a vederla da fuori, non incute particolare timore tanto appare integrata nella cupa realtà che la circonda. Il grigio e il nero sono ovunque i colori prevalenti, della terra, delle strade e delle case dell’isola, dominata dall’alto dal vulcano Karthala che nel corso del tempo, con le sue eruzioni, ha cosparso tutto di lava e cenere scure come la pece. Le molte spiagge sono ormai ridotte all’osso, tanto hanno sofferto dei saccheggi di sabbia bianca fraudolentemente utilizzata nelle costruzioni.
La prigione, comunemente chiamata “Moroni 2”, riferimento ironico al più esclusivo hotel della capitale delle Isole Comore, è la più grande delle tre, una per isola, che i francesi hanno edificato nell’arcipelago durante il dominio coloniale.
Secondo il genio militare degli architetti dell’epoca il carcere di Moroni era sufficiente a contenere un’ottantina di persone. Secondo gli standard sanitari attuali dell’Organizzazione Mondiale della Sanità non potrebbe ospitare più di cinquanta detenuti. Il 19 novembre scorso, giorno della nostra visita, nel carcere sono stipate 221 persone, tra cui sei condannati a morte, otto donne e sei minori.
Il Procuratore Generale delle Comore, Mahamoud Soilihi, ha autorizzato la delegazione di Nessuno tocchi Caino e del Partito Radicale a entrare nella Maison d’arrêt di Moroni, “a condizione che sia rispettata la privacy delle persone detenute e l’immagine del Paese”. Il richiamo ci appare subito paradossale di fronte allo stato di estrema deprivazione e promiscuità generale che connota la vita dei reclusi: i venticinque condannati definitivi convivono con tutti gli altri in attesa di giudizio; i sei condannati a morte e i due condannati a vita per reati violenti socializzano con ladri di polli e autori di altri piccoli furti; i diciassette imputati di attentato alla sicurezza del territorio comoriano sono associati ai responsabili di appropriazione indebita di terreni e di altre piccole dispute sulla terra; i sei minorenni sono mescolati a persone molto anziane e ai numerosi detenuti per violenza sessuale, il reato più comune; persone malate coabitano con tutte le altre apparentemente sane.
Gli edifici sono in rovina totale, con perdite d’acqua ovunque che minano fondamenta e tetti, costruiti con calce e sabbia di mare, molto povera per l’eccessivo contenuto di sale.
I prigionieri maschi sono stati divisi equamente in due sezioni situate una affianco all’altra con ingressi indipendenti. Di giorno, la vita dei reclusi si svolge in un piccolo cortile in terra battuta, disseminato di sassi, sacchetti e scodelle di plastica e mucchi di rifiuti.
Appena entriamo, siamo assaliti da una puzza nauseabonda che viene da un rivolo di liquame che scorre a cielo aperto e dall’odore acre di legna bruciata che proviene da una cucina rudimentale posta in un angolo sotto una tettoia dove un gran fuoco alimenta un enorme pentolone nero. Il detenuto cuciniere si presenta sorridente e fiero di preparare il povero pasto quotidiano per gli oltre cento suoi compagni di sventura. Il rancio, da anni sempre lo stesso, consiste in una sola ciotola di riso e sardine che può esser l’unica risorsa alimentare per chi non può permettersi una integrazione con qualche alimento supplementare portato in carcere dai famigliari.
Secondo la “matricola”, i minori di diciotto anni detenuti nel carcere di Moroni sono sei, ma quando nel cortile dell’aria chiediamo loro di mettersi tutti da una parte lungo un muro per essere contati, se ne presentano molti di più, almeno una ventina: alcuni, come Naouirou, Housni, Nizar, Ibrahim e Mounir, sono davvero dei bambini; altri sembrano appena maggiorenni; altri ancora più grandicelli s’infilano lo stesso nel gruppo per farsi fotografare.
L’unico edificio di una certa ampiezza e dignità è la “moschea” che sorge nel mezzo del cortile. E’ stata inaugurata nell’aprile del 2009 per portare un po’ di pace e conforto nella comunità di disperati, poveri e abbandonati che abita l’inferno di Moroni. Mohamed Assaf si atteggia a Imam, insegna il Corano e chiama alla preghiera. “Sono stato messo in prigione a luglio per spionaggio nei confronti del Presidente”, dice sarcastico. Fa parte del Fronte Nazionale per la Giustizia, un partito islamico d’opposizione, ed è accusato di aver “fraudolentemente” registrato una conversazione tra il Presidente della Repubblica Ikililou Dhoinine e il vice Presidente Nourdine Bourhane.
I detenuti trascorrono tutto il giorno nel cortile, dove l’unico svago è una sorta di “dama” giocata su una scacchiera di pietra con dei sassolini rotondi a fare da pedine. Di notte sfidano le leggi della fisica per sistemarsi su alcuni materassi e, soprattutto, stuoie sul pavimento di celle fatiscenti dove restano intrappolati fino all’alba. Le poche stanze singole, riservate a detenuti eccellenti o pericolosi, sono davvero minuscole e non hanno una presa d’aria né una fonte di luce naturale. L’aria potrebbe essere mossa da piccoli ventilatori personali, ma sono tutti spenti al momento della nostra visita, sebbene collegati a una rete volante di fili elettrici, usati più che altro per appendere sacchetti di plastica, poveri vestiti e panni di tutti i colori. In un camerone di tre metri per cinque, l’unico esistente nella sezione, un detenuto febbricitante e zeppo di sudore riposa da solo sull’unico giaciglio che va da un muro all’altro della cella. Al tramonto sarà raggiunto dal resto della popolazione detenuta.
L’infermeria del carcere è priva di attrezzature e farmaci essenziali e, anche se le malattie infettive la fanno da padrone, non ci sono detenuti ricoverati. L’anticamera è utilizzata come dormitorio da alcuni soldati dell’esercito preposti alla custodia dei detenuti accusati di aver minato la sicurezza dello Stato.
Fekkak Abdellaziz, un marocchino di 47 anni condannato a morte per omicidio “passionale”, ci mostra le macchie che ha sulla pelle. “Nei molti anni passati qui dentro non sono mai stato visitato da un medico”, lamenta, “chiedo solo condizioni più umane di detenzione, piccole cose, un sapone, un po’ di cibo, latte, qualche medicina e un po’ di conforto.”
Abdermane Abdillah, un ex sottoufficiale di polizia condannato a morte per omicidio, si proclama innocente e chiede un processo di revisione. “Ormai confido solo nell’aiuto di Dio e nella giustizia divina… Non ho più speranza in quella degli uomini.”
Questa sezione ha due “toilette” che nessuno oserebbe definire servizi igienici. La doccia è in realtà un secchio attaccato a un rubinetto che non si sa se e quando possa erogare acqua. Per i loro bisogni notturni diversi detenuti usano sacchetti di plastica che l’indomani sono accatastati in un angolo del cortile.
Le otto donne detenute sono in una piccola sezione a parte e, al nostro arrivo, forse per pudore, si ritirano tutte in una minuscola stanza e si accucciano su un giaciglio che di notte sarà il loro letto comune.
La prigione non ha un parlatorio. I colloqui si svolgono sotto una tettoia all’ingresso del carcere recintata da una rete da pollaio dove detenuti e parenti siedono su panche di pietra divisi da un muretto a mezza altezza.
Da diversi anni, la sicurezza di questo carcere fatiscente è affidata a una società privata, che ha un contratto con il Ministero della Giustizia. Prima di uscire, il responsabile del carcere, il commissario Ahamada Oussouf, che indossa una camicia hawaiana, occhiali a specchio e cappello texano, ci invita nel suo ufficio, un bugigattolo di un metro per due. Il computer e la stampante sulla sua piccola scrivania sono spenti e sicuramente non funzionano. I dati essenziali sulla popolazione detenuta sono scritti col gessetto su una lavagna appesa alle sue spalle e li ha riportati a penna su un foglietto che ci consegna. “Avete visto come vivono i detenuti. Guardate ora in che condizioni lavoro io... Chiedo solo che qualcuno finanzi un corso di formazione del personale penitenziario.” A sua disposizione ha solo sette agenti, tra cui tre donne, reclutati tra i ranghi della polizia e un furgoncino di pochi posti del tutto insufficiente per portare in tribunale la massa di detenuti in attesa di giudizio.
Dopo l’indipendenza dichiarata unilateralmente nel 1975, le tre Isole Comore – Gran Comora, Anjouan e Moheli – sono state dalla Francia abbandonate a se stesse, insieme alle loro prigioni. Altre due isolette dell’arcipelago, le Mayotte, che hanno scelto di rimanere francesi, sono state ricompensate con generosi sussidi sociali, notevoli vantaggi economici e una caserma della Legione Straniera.
Usciamo dalla prigione di Moroni con un senso di nausea. Non avevamo mai visto uno stato tale di degrado e desolazione in nessun altro luogo di privazione della libertà. Il suo decadimento totale e le disumane condizioni di vita di chi ha avuto la sventura di finirci dentro non sono solo un fatto nazionale comoriano. Interrogano anche la coscienza collettiva del mondo “civile” e, soprattutto, richiamano la responsabilità dell’Europa che, dopo aver un secolo fa edificato e poi lasciato in eredità carceri, forche e altri patiboli – ignoti nella tradizione africana –, ha il dovere oggi di riparare, a partire dalle prigioni, almeno con un’oncia di solidarietà, donando a questo Paese un minimo di decenza civile, di dignità umana, di pietà.
 
* Dall’11 al 22 novembre 2014, Nessuno tocchi Caino e il Partito Radicale hanno effettuato una missione in Africa per suscitate voti a favore della Risoluzione Onu per la moratoria universale delle esecuzioni capitali che sarebbe stata votata a dicembre di quello stesso anno al Palazzo di Vetro. La delegazione, composta da Sergio D’Elia, Marco Perduca e Marco Maria Freddi, si è recata prima in Zimbabwe e nelle Isole Comore e, nella terza tappa della missione, in Niger dove si sono uniti anche Marco Pannella, Matteo Angioli e Stefano Marrella. Questo reportage di Sergio D’Elia e quello che segue di Marco Perduca, entrambi pubblicati su Panorama.it, sono il resoconto di due tappe importanti della missione.