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Articolo di Giuseppe Pisauro pubblicato dall’Unità il 13 giugno 2006


Le virulente polemiche che hanno accompagnato la elezione di Sergio D’Elia - si badi bene: elezione e non nomina - quale uno dei sedici segretari della Camera, in rappresentanza della Rosa nel Pugno, non credo siano riconducibili a semplici beghe politiche, ma evidenziano, a mio avviso, qualcosa di più complesso che merita alcune riflessioni.
Non è, infatti, pensabile che tutti abbiano dimenticato il dettato costituzionale che lega la pena “alla rieducazione”, che tutti abbiano dimenticato gli oltre vent’anni spesi da D’Elia nell’impegno contro la barbarie della pena di morte. Dietro i richiami all’opportunità della sua elezione ad un incarico istituzionale si nasconde il limaccioso riemergere di un copione mai dismesso dal nostro ceto politico (di ogni tendenza).
Ci si deve, quindi, fare carico di un necessario chiarimento storico-politico, che passa, necessariamente, dal ricordare e riabilitare di fronte agli immemori il significato politico della stagione della dissociazione dalla lotta armata e dal terrorismo.
Parlo di stagione in quanto il fenomeno della dissociazione dal terrorismo precedette di molti anni l’emanazione di una apposita legge che la riconobbe anche processualmente, ed ebbe alcuni cardini essenziali: lo scioglimento delle organizzazioni armate o, comunque, la cessazione  di qualsiasi vincolo associativo, l’ammissione delle responsabilità penali da parte dei singoli soggetti, e l’impegno pubblicamente espresso del rifiuto della violenza come metodo di lotta politica.
Enunciava, quindi, non tanto la presa d’atto della sconfitta della lotta armata, ma ne denunciava esplicitamente la devastante erroneità. Da questa rivendicazione etico-politica venne la spinta decisiva alla istituzione, nelle carceri, delle aree omogenee della dissociazione che pose concretamente il problema dell’abbandono delle pratiche omicidiarie e ruppe la solidarietà della detenzione politica. Tutto ciò, che anche personalmente e professionalmente posso testimoniare, aprì la strada alla legge sulla dissociazione, nonostante l’opposizione dei cultori del pentitismo quale unica strada percorribile per debellare il terrorismo e la lotta armata.
Ne consegue che tutti coloro che fecero apertamente quella scelta, e D’Elia fu fra i primi, si impegnarono apertamente contro il terrorismo. E fu proprio questo impegno, che riguardò una larga parte dei detenuti per fatti di terrorismo e di lotta armata, a minare le basi politiche di quel devastante fenomeno, recidendone il continuismo culturale e organizzativo, ed impedendone la diffusione esponenziale. Chi sta attaccando il Sergio D’Elia di oggi per il suo passato terrorista e per il suo concorso nell’omicidio di un poliziotto dovrebbe chiedersi anche quanti altri omicidi sono stati evitati grazie alla sua azione politica contro il terrorismo condotta quando era ancora in carcere.
Questa sua azione ebbe però dei fieri ed agguerriti avversari anche nelle forze politiche rappresentate nel Parlamento, oltre che, naturalmente, nell’irriducibilismo della lotta armata. Dietro quelle forze politiche c’era un’opzione che, privilegiando il pentitismo, continuava ad interpretare la politica come scontro militare, rivendicazione di una superiorità antropologica nei confronti degli avversari, nemicità come categoria interpretativa della politica. Appare quindi chiaro, a chi voglia con serietà riflettere sulla nostra recente storia, che per un verso il fenomeno della dissociazione contribuì in maniera decisiva alla sconfitta del terrorismo ed al suo radicamento di massa, ma che, per altro verso, i veleni seminati da chi vi si oppose hanno pervaso l’humus del confronto politico, soprattutto dagli anni novanta in poi.
Oggi come allora, infatti, il copione è lo stesso, anche se a parti invertite! Si strumentalizza il comprensibile dolore di chi ha visto i propri cari cadere vittime di quelle azioni, per ottenere non soltanto un mediocre risultato di visibilità, ma per consolidare una visione belligerante della lotta politica che ha devastato il tessuto sociale e politico della c.d. seconda Repubblica.
Al contrario, mi sembra necessario rivendicare oggi quell’impegno, e riabilitare anche quella parte del ceto politico che seppe, con intelligenza e lungimiranza, coltivare le strade impopolari della risoluzione politica del fenomeno terroristico e consentire al nostro Paese di uscire da quella spirale sanguinosa, rispettando Costituzione e leggi, ma soprattutto facendo rivivere la speranza di un reinserimento civile di quanti a quella scelta avevano erroneamente creduto. Non brechtiani eroi, ma sicuramente politici accorti che seppero leggere le giuste istanze di una società civile che voleva crescere recuperando intelligenze, senza con ciò dimenticarne le incolpevoli vittime.
 
Avv. Prof. Giuseppe Pisauro, docente Università di L’Aquila

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