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Stralci dall'intervista di Carlo Romeo a Sergio D'Elia, Teleroma 56


 
 
3 marzo del 1987
 
 
 
 
Hai mai ucciso nessuno?
"Io direttamente no, anche credo sia stato un fatto casuale, nel senso che facendo parte di una organizzazione combattente ovviamente mettevo nel conto la possibilità, ahimè a quel tempo anche la necessità, di operare l'omicidio politico come forma di lotta politica"
 
Ci sono dei fantasmi che ti arrivano addosso ogni tanto, o spesso?
"C'è un profondo dispiacere per quanto di irreversibile la mia attività politica ha prodotto nelle famiglie, soprattutto nelle famiglie delle vittime. Mi rendo conto di aver apportato dei guasti irreparabili, a cui è impossibile anche pensare, sarebbe volgare pensare in termini banalmente di risarcimento. Ritengo altresì che sia importante mantenere un livello non dico neutrale, perché neutrale forse non sarà mai, ma comunque un livello di mediazione, un livello diverso che è quello della politica, che ripeto nulla può restituire sul piano degli affetti negati, distrutti, ma comunque è un modo innanzitutto di ricostruzione, di riflessione e di soluzione non tanto della mia condizione personale di detenuto, ma di soluzione di un problema qual è quello della rottura in questo paese di una generazione, una ricomposizione di questa frattura tra una generazione e il ceto politico".
 
Qual è il momento in cui hai scelto la lotta armata?
"Si è trattato dell'evoluzione di un pensiero originario che era quello rivoluzionario, per cui non vedevo nell'immediato uno sbocco, quindi per me era amaro verificare dopo un decennio di attività politica, non trovare una soluzione a questa idea di rivoluzione  che mi aveva affascinato, questa idea romantica e ottocentesca, quanto ingenua e inconcludente. A un certo punto senti il bisogno di consumarla, di portare il pensiero rivoluzionario alle estreme conseguenze, quindi all'atto violento, per vedere se era realistico un sbocco, se uno sbocco è possibile, oppure verificare esattamente il contrario, cosa che ho verificato purtroppo attraverso l'attività tragica che era quella della violenza."
 
Sei stato in carcere negli anni più difficili, quelli che sono stati definiti gli anni di piombo.
"Noi non ci consideravamo deprivati di un rapporto con la realtà esterna. Noi eravamo dentro e fuori c'erano i nostri compagni che continuavano quello che noi avevamo impostato. Quindi in realtà il carcere non ha creato una frattura tra noi. Questa frattura si crea quando maturano elementi di consapevolezza, quando ritieni di dover dare un segno diverso alla tua vita, quando sostanzialmente maturi la definitiva consumazione con l'esperienza precedente, in quel momento ti apri a una nuova vita, e in questo senso sono importantissimi gli stimoli che ti vengono da fuori.
Il Partito radicale per me è stato questa apertura alla nuova vita, questa educazione sentimentale, per cui io dopo aver negato affetti e sentimenti ritorno probabilmente a vivere, quindi ad amare, quindi a conoscere, quindi a lavorare e impegnarmi ad esprimere la mia umanità nei confronti dell'umanità, quindi a fare qualcosa banalmente non per me stesso, ma anche per gli altri. Questa possibilità mi è stata concessa sostanzialmente da questo rapporto con il Partito radicale a cui probabilmente mi hanno legato elementi di affinità che all'inizio per me non erano consapevoli perché era troppo stridente la differenza tra quello che facevo io, e cioè violenza, e quello che facevano i radicali, cioè nonviolenza.  Però una non indifferenza, il non volersi tappare le orecchie, il voler rispondere mettendo in gioco sé stessi ci accomunava. Era un'umanità completamente opposto, la nostra più ingenua e straziante, quella del Partito radicale sicuramente più intelligente e nonviolenta, quindi era umanità totale, era umanità completa."
 
Che cosa vuol dire avere paura in carcere?
"La paura è fondamentalmente la mancanza di una via di fuga, la mancanza di uno sbocco, trovarsi in un circolo vizioso in una strada senza sfondo, il che significa un avvolgersi su sé stessi senza trovare un'uscita. La prima fase della mia vita carceraria è stata caratterizzata da questo circolo vizioso, da questa strada buia senza sbocco, e quindi è stata dominata dalla paura".
 
Il Partito radicale. In fondo tu oltre a essere un compagno di carcere, sei anche un compagno di penna, come ti definisce Maurice Bignami. Avete scritto insieme dei documenti inquietanti, da un certo punto di vista affascinanti, che sono il bilancio di una parte della vostra vita, ma anche la volontà, nonostante l'ergastolo di Bignami e i tuoi trent'anni, di non considerarla finita con quelle sentenze, e rivedere certe cose, giurare fedeltà alla democrazia, lanciare appelli a quei terroristi che chiamate "compagni assassini", vuol dire aver cambiato molte cose.
"Per noi è un passaggio obbligato, e soprattutto sentito. Noi decidiamo di iscriverci al partito radicale non con qualche forma di continuità in quanto ceto politico, lo facciamo soprattutto per dovere, per un sentire di dover fare qualcosa che ci staccasse fattivamente molto concretamente da quella che era la nostra esperienza passata. Probabilmente la cosa più sicura, per noi meno problematica sarebbe stata quella di veder risolversi le nostre vite, le nostre storie giudiziarie nei termini naturali di un processo di decarcerazione, nel senso previsto per esempio dall'amministrazione penitenziaria riformata dalla legge Zozzini. Noi come processo naturale tranquillo potevamo starcene in branda attendendo i tempi di risoluzione per via amministrativa. Una nostra consapevolezza ed onestà ci ha portato invece all'impegno civile, all'impegno politico, ma non come continuità come ceto politico, ma come debito di riconoscenza non tanto al Partito radicale a cui ci iscriviamo, ma come debito di riconoscenza nei confronti della società, nei confronti di quanti con le nostre azioni abbiamo messo in condizioni di deprivazione di affetti e di distruzione dei loro legami familiari. Probabilmente non si può restituire nulla da questo punto di vita, io credo che veramente non c'è nulla che possa essere restituito sul piano umano, neanche sul piano dell'impegno civile riparatore, perché quello che noi possiamo offrire ora non vale veramente niente nei confronti di una vita distrutta. Non c'è una logica dello scambio, c'è solamente un sentirsi in qualche modo legati con un segno diverso all'umanità a cui ci siamo riferiti in maniera drammatica con atti violenti".
"Io posso esprimere la massima distanza da quello che ero nella misura in cui io faccio qualcosa per un uomo il più distante da me. In questo senso non mi voglio operare nel senso di una soluzione ad esempio di problemi di tipo carcerario, che sarebbe comunque un rivolgersi a me stesso, seppure in misura più allargata. Sono molto stimolato ad operare per uomini che vivono condizioni di libertà negata il più lontano da me".

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