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Sulla nobiltà dell'abiura

Lettera inviata ai quotidiani "Il Manifesto" e "Il Popolo" il primo maggio 1987 in merito al dibattito apertosi dopo la pubblicazione della lettera-documento di Giorgio Bertolazzi, Renato Curcio, Maurizio Jannelli e Mario Moretti

(di Maurice Bignami, Sergio D'Elia e altri)



1 maggio 1987           

Interveniamo nel dibattito che ha seguito la pubblicazione della lettera scritta da Bertolazzi, Curcio, Jannelli e Moretti. Non siamo nuovi a intervenire sull'argomento, lo abbiamo già fatto, anche in presenza di processi aperti o leggi in cantiere, ed è veramente bizzarro che a qualcuno piaccia pensare che a giudizi penali esauriti e a provvedimenti legislativi varati vi sia un discutere più libero, spregiudicato e disinteressato.
Secondo questa logica, a noi rimane un dubbio, anzi due. Primo: non è sempre troppo comodo parlare quando una legge ti premia, e allora non è sempre troppo comodo per tutti discutere quando si vuole ottenere un risultato, vale a dire quando si fa politica? Secondo: non era forse meglio discuterne prima - tre anni fa, due anni fa, un anno fa -, rimboccarsi le maniche, evitare una così brutta legge e anticipare una soluzione migliore?
Ci pare di capire che l'atteggiamento sia: si risolva prima il caso di chi se la canta, poi quello di chi non é più d"accordo e lo dice, infine quello di chi non è più d'accordo, ma se lo tiene per sé.
Una ben strana linearità! E noi a credere che la soluzione politica non sia tanto l'uscita dal carcere di trecento ex giovanotti, quanto una nuova qualità della vita e della democrazia!
Ma tutto questo è veramente poco interessante.
In realtà coglie nel segno chi legge la storia della dissociazione come la storia di una abiura... ma non punge nel vivo.
La nostra presa di congedo dalla lotta armata ha il senso della morte dell'idea stessa di rivoluzione, quell'idea ottocentesca - deterministica, teologica e messianica - che ci ha affascinato in passato. Un fascino intellettuale che ha cortocircuitato con bisogni e ragioni sociali. La forma di vita più pura, il pensiero, ha preteso di mescolarsi con pulsioni e malesseri sociali, finendo quindi per risolversi in un eccesso di sé, nell'atto violento.
E' proprio dall'idea stessa di rivoluzione che noi oggi ci distacchiamo. Non si tratta di chiedersi freddamente se la rivoluzione può tollerare strategie violente e armate, sia pure in un contesto sociale storicamente determinato. Noi ripudiamo l'atto puro, l'idea stessa, quel pensiero rivoluzionario da cui proprio per coerenza, per necessaria conseguenza e per condizioni oggettive - sempre esistite e sempre esistenti -, deve scaturire I"atto violento.
La lotta armata, questa eccedenza dell'idea di rivoluzione, ha risolto drammaticamente, come solo può avvenire, un filone di pensiero che l’Occidente stesso ha generato agli albori della modernità.
E' fatale che un'idea si possa compiere soltanto se portata alle estreme conseguenze, vale a dire fino alle conseguenze dell'atto, ma è altrettanto scontato che di quell'idea originaria alla fine non rimanga più nulla, come dimostrano i casi in cui essa ha avuto successo.
Se la rivoluzione di ottobre in Russia ha rivelato quanto un potere, fosse anche proletario, costruito con la violenza sia poi condannato a esercitarla per sempre e contro le stesse ragioni e speranze che in origine l'avevano mobilitata e nobilitata, la lotta armata in Italia ha infranto lo specchio, ha consumato l'immaginario rivoluzionario - disatteso e sempre attendibile, inattendibile e sempre atteso - che dall'ottobre rosso aveva tratto ragione e alimento.
Portando alle estreme conseguenze il pensiero rivoluzionario, la lotta armata nell'occidente capitalistico ha disvelato il trucco ideologico, sciolto il malinteso storico.
Nel carcere di Rebibbia, alcuni giorni fa abbiamo incontrato Bukovskij, Maksimov e Pljusc. Ne abbiamo ricavato una testimonianza assai interessante.
Prendendo per buone alcune categorie classiche del pensiero comunista (proprio quelle impiegate nella loro lettera da Curcio e compagni), potremmo in tal modo tradurre la loro esperienza. Nonostante i "presupposti di classe" fossero ancora tutti presenti, le "condizioni internazionali" favorevoli e una certa "cultura politica" non fosse mai venuta meno, i dissidenti sovietici hanno sempre rifiutato di esercitare violenza in una sorta di "scontro sociale", né si sono mai serviti di "specifici progetti di organizzazione rivoluzionaria".
Ci hanno confermato una verità fondamentale: "... alla democrazia non ci si arriva per via clandestina. Non si può imparare dai nemici, se non si vuol diventare come loro. La clandestinità genera solo la tirannia".
A noi piace sul serio considerarci come loro, approdati alla libertà, esuli dal terrore e dal comunismo!
Abbiamo scelto la democrazia, siamo quindi passati attraverso l'abiura, atto coraggioso e nobile quant'altri mai... per lo meno nel campo di vita dei totalitarismi.
Se è certamente importante affermare l'esaurimento di un ciclo di lotte quale si é svolto in Italia negli anni Settanta - ed è importante perché parlano voci autorevoli provenienti dall'area del silenzio -, assai più rilevante è però riconoscere alcune semplici verità di questo nostro tempo e di questa nostra società: i metodi e i mezzi usati nella lotta ne condizionano i fini, quando non li prefigurano, semplicemente e radicalmente; se anche con tali metodi e tali mezzi, per ipotesi, si arrivasse a "prendere il potere", allora, a maggior ragione, diverrebbe giusto, addirittura doveroso e necessario uccidere, incarcerare, costringere all’esilio per mantenerlo... e non era questo che volevamo.
Occorre già nell'oggi saper lottare in modo che le scelte compiute diano una vita migliore, forse difficile ma anche più felice. Una vita e una testimonianza che attraggano e non respingano, che siano e diano speranza - e non forza di disperazione - per la gente senza poteri, variamente offesa e ferita, oppressa. La democrazia non è affatto superata, semmai deve essere liberata! Armati di nonviolenza, inermi ma non inerti, è possibile convincere - vale a dire vincere con, non vincere contro - coloro che vogliamo vivano con noi in più giustizia, in più libertà. D'altronde questa è la vittoria più duratura, che è sempre anche vittoria su sé stessi, su come ci vogliono far essere e apparire. Occorre saper essere "gente", non pretendere di guidarla o di salvarla.
È quanto cerchiamo di fare oggi, perché il nostro passato, che è anche la nostra storia e la nostra natura, si rovesci di segno.
Da tempo abbiamo operato la rottura, sciolto la banda armata, smontato l'armamentario politico e ideologico. Esaurita la spinta propulsiva della rivoluzione, non siamo rimasti ad aspettare in mezzo al guado tempi migliori, calamitati ancora dai sedimenti della tradizione comunista. Pur non essendo attratti dallo spettacolo offerto dai partiti che occupano la scena politica, abbiamo scelto decisamente la democrazia, il rispetto delle regole del gioco, la libera competizione delle idee e delle opzioni, il metodo della tolleranza. E proprio per questo motivo non aderiamo acriticamente all'esistente, ma ci impegniamo - per quanto è possibile - affinché la democrazia si rifondi. Una democrazia, allora, più occidentale che levantina, più anglosassone che continentale, che viva nella forma di un bipartitismo perfetto, dove è possibile l'alternanza tra una maggioranza e una opposizione, dove la posta in gioco è chiara, e il governo vincolato a obiettivi precisi da conseguire in un tempo determinato.
Non siamo ritornati nelle braccia dello Stato qual è, ma abbiamo scelto di operare assieme a chi ha espresso in questi anni una realistica, efficace e meritevole politica contro la violenza, assieme a chi già nel '78 si rivolgeva a noi, "compagni assassini", e poneva così le basi per un nostro futuro riscatto, assieme a chi ci riconosce oggi il diritto a tutti gli effetti di cittadinanza politica. Assieme a chi si offre come forza irriducibile di idee, ragioni e speranze per cui vivere e lottare. La nostra battaglia di libertà non coincide banalmente coi tempi, i modi, le opportunità di una nostra uscita dal carcere. Verifichiamo anzi continuamente di essere più liberi oggi, nonostante la galera, di quanto lo fossimo ieri. Nella testa e nel cuore, perlomeno. D'altronde, non ci siamo mai considerati detenuti, ma uomini privati della loro libertà personale. Non ci siamo mai considerati prigionieri di guerra, ma gente che faceva e fa politica.
Non esiste trattativa, in ogni caso noi non abbiamo nulla su cui trattare. Non abbiamo né vogliamo avere informazioni, armi o forza di ricatto da far valere o esercitare. Tanto meno ci interessa irrigidirci nel silenzio, a testimoniare l'ontologica negatività dello Stato, ad aspettare oggi la sua resa di fronte alla parola muta, dopo aver provato a ottenerla col rumore delle armi. Così pure non si pone minimamente la questione del riconoscimento politico; per noi non si poneva allora, tanto meno si pone oggi, postuma. Il ritorno alla democrazia - e non semplicemente alla libertà - di quanti ne erano fuoriusciti non può dipendere da un'etica dei risultati a sacrificio della legalità e della libertà di tutti, né peraltro da una "etica dei principi" sempre eterni e eternamente compromessi. Un'autentica soluzione politica, vale a dire corretta, intelligente ed efficace, riconduce e fa giocare alla democrazia, offre ragioni e speranze possibili - e non solo probabili - per lottare e continuare a vivere, educa alla nonviolenza e fissa nei violenti i caratteri irreversibili della tolleranza. Un'autentica soluzione politica è una battaglia di civiltà, e poi, semmai, una battaglia di libertà. E' una questione di qualità della vita e di vita delle qualità nella e della democrazia. Per noi ex terroristi è una qualità del ritorno, per la società politica una qualità dell'accoglienza. Nessuna trattativa, nessuna imposizione, una serie di possibili atti unilaterali che scaturiscano, ognuno, dal proprio senso di umanità e di responsabilità.
In tempi non sospetti, ci siamo rivolti agli epigoni delle Br, col nostro senso di responsabilità per ciò che loro continuano a fare. Abbiamo parlato alla loro umanità e alla loro non indifferenza. Oggi ci rivolgiamo ai precursori delle Br, e con lo stesso senso di responsabilità vorremmo parlare alla loro intelligenza e al loro buon senso.
Nulla e nessuno vieta, a chi vuole, un gesto simbolico, gratuito e unilaterale, ma anche concreto, pagante e coinvolgente, una dichiarazione pubblica ed esplicita di scioglimento della banda armata Brigate rosse. Lo scioglimento della sigla, che un tempo ha associato e ora collega ingiustamente all'oggi, lascerebbe ancor più i nuovi terroristi soli con tutta la loro tragica e diseredata attualità.
E lascerebbe soprattutto Bertolazzi, Curcio, Jannelli e Moretti finalmente liberi da una rappresentazione pubblica di sé che siamo convinti non coincida più con la loro attuale identità.

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