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TOTÒ CUFFARO ESCE DAL CARCERE, MA RESTA ANCORA PRIGIONIERO

6 giugno 2022:

Sergio D’Elia su Il Riformista del 3 giugno 2022

Voglio parlare di Totò Cuffaro, del giudicabile, impresentabile, irredimibile ex presidente della Regione Sicilia. Perfetto e perenne tipo d’autore, di lui non si dice che reato abbia fatto, contro di lui si continua a “fare giustizia”. Pagato il suo debito con la società, non si può presentare in società, perché un marchio di infamia con la scritta indelebile “non cambierai mai” rimane impresso sulla sua pelle. Ha scontato la sua pena fino all’ultimo giorno, ma per lui non vi può essere redenzione, il suo fine pena è mai.
È stato condannato a essere un reo per sempre, non come Caino a cui pure, in un altro senso dell’errare, è accaduto di attraversare terre desolate e da radice del male divenire padre fecondo di nuove discendenze e beato costruttore di città. La sua colpa? Quella di voler continuare a fare politica. In terra di mafia e con lo scudo crociato. Eppure, nella corsa elettorale al Comune di Palermo, Totò Cuffaro non concorre di persona. Il suo è un concorso esterno, non in un’associazione di stampo mafioso, reato che non esiste nei codici, che è di stampo giudiziario, che è stato inventato nei tribunali e per il quale Cuffaro non è mai stato condannato, ma in un’associazione politica denominata “democrazia cristiana”. Per questo, in questi giorni, è stato messo in croce, criminalizzato e processato sulla pubblica piazza perché “da fuori” ispira, dirige, condiziona i giochi della politica dei partiti e del potere mafioso sulla città.
In Italia, a partire almeno dagli anni 90, è avvenuto un capovolgimento totale di principi e regole dello stato di diritto, del giusto processo e della giusta detenzione, se giusta può essere mai definita la pratica barbara di chiudere in gabbia una persona. È accaduto che il tribunale sia ormai divenuto un carcere e il carcere un tribunale. Accade che ti fanno espiare una pena in attesa del giudizio e continuano a giudicarti anche durante l’espiazione della pena. In tribunale non entra il reato, il fatto di reato, entra l’uomo, il tipo d’autore. Viceversa, in carcere entra il reato, mentre l’uomo resta fuori; il reato, poi, è sempre ostativo e la pena infinita. Per Totò Cuffaro, il diritto è stato capovolto dalla parte del torto oltre ogni umana percezione dello spazio e del tempo. Il condannato rimane colpevole anche fuori dal luogo del delitto e del castigo, anche dopo la fine del processo e della pena.
Totò Cuffaro sta subendo un processo per un reato che non gli è mai stato contestato e sta scontando un ergastolo che non gli è stato mai comminato. Cuffaro ha onorato la sentenza che lo ha condannato, ha scontato la sua pena tutta d’un fiato, con dignità e senza tregua, senza un attimo di respiro, senza un giorno di ristoro, senza un atto di condono. Gli è stata negata persino la minima manifestazione di umana, cristiana pietà di una visita a casa della madre anziana e in gravi condizioni di salute. Il “fine pena mai” è terribile e inumano per chi è stato condannato all’ergastolo, è particolarmente odioso quando viene applicato vita natural durante anche a chi all’ergastolo non è mai stato condannato. Racconto la storia di Cuffaro perché è la storia di un detenuto noto che ci deve far riflettere sul destino di migliaia di “detenuti ignoti” che, una volta espiata la pena, sono costretti alla clandestinità dei rapporti sociali, sono indotti a vergognarsi di essere stati carcerati, sono marchiati a vita per il loro passato.
Hanno scontato per intero la loro pena? Anche se è stata lieve, su di loro continua a pesare il fatto di essere stati “carcerati”. Non hanno diritto a un reinserimento sociale pieno e incondizionato. Sono interdetti da diritti civili e politici fondamentali: di parola, di opinione, di associazione, di partecipazione alla vita sociale. Uscito dal luogo deputato per la pena alla fine del tempo stabilito dal giudizio, in realtà, Cuffaro dal carcere non è mai uscito e rimane sempre uno in attesa di giudizio: prigioniero è stato nel passato, prigioniero rimane nel presente, prigioniero sarà per il futuro. Per il solo fatto di essere stato processato, condannato, carcerato. Allora, se io devo scegliere di chi fidarmi, mi fido più di un condannato che non di un innocente. Perché del condannato so tutto, cosa ha fatto, cosa non ha fatto. Dell’innocente non so nulla. È, come si dice, “innocente fino a prova contraria”, anche fino alla prova del contrario di ciò che appare.
 Del condannato, invece, sono certo: è un “colpevole fino a prova contraria”, che può essere la prova della sua innocenza, della sua estraneità al reato, ma anche, meglio, la prova della innocenza ritrovata, della sua diversità rispetto al tempo del reato.
Io ho conosciuto il condannato Cuffaro quando era detenuto a Rebibbia. Con Marco Pannella e Rita Bernardini lo andavamo trovare, lui e i suoi compagni di sventura, la notte di San Silvestro per augurare, allo scoccare della mezzanotte, un buon anno, diverso da quello appena passato. Il carcere è il luogo della pena, ma anche il momento della verità, della conoscenza della persona, della scoperta del suo essere autentico. Lì, nel luogo di privazione della libertà e del potere, ho conosciuto e stimato Cuffaro nella sua nuda identità, per la sua grande umanità e la sua infinita bontà. Quando era a Rebibbia, detenuto, colpevole, condannato. Credo di non averlo mai incontrato quando era libero, innocente e potente governatore di regione. Io mi fido di Totò Cuffaro perché è stato detenuto a Rebibbia e, oggi, lo difendo da chi lo considera ancora un detenuto. Lo difendo, innanzitutto, dai sepolcri imbiancati, da coloro che lo hanno conosciuto, frequentato e votato quando era innocente come un angelo e potente come un imperatore.
Mentre, oggi, caduto dall’alto dei cieli e finito all’inferno della condizione umana, lo condannano – senza processo e senza pena – all’interdizione perpetua dai pubblici uffici, e gli negano finanche il diritto di parola, il diritto di associazione, il diritto di aggregazione e di partecipazione alla vita politica democratica. Io difendo l’umanità di Totò Cuffaro, i suoi diritti umani, civili e politici, e indico il suo vissuto come un esempio che plasticamente descrive e, nello stesso tempo, invoca il superamento della realtà, che fa letteralmente pena, di uno Stato anti-Diritto, anti-Costituzione, anti-Convenzione europea sui diritti umani. Chiunque l’abbia detto – Voltaire, Tolstoj o Dostoevskij – non basta più dire che la civiltà di un Paese si misura entrando nelle carceri. Occorre dire che la si misura uscendo dalle carceri, da un sistema di giustizia penale che pregiudica anche dopo il giudizio, che condanna oltre ogni punizione e imprigiona anche fuori dal muro di cinta del luogo di detenzione.

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